Ecco qual è il problema del futuro:
quando lo guardi cambia perché lo hai guardato.

Lee Tamahori

INTERNET BILL OF RIGHTS, QUAL E’ IL LIMITE ALL’INFORMAZIONE

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È capitato qualche giorno ad un mio amico consulente del Fondo Monetario Internazionale. Ha scattato una fotografia nella portineria di un ministero a Roma per dimostrare che in Italia non si riescono a fare spending review serie visto che ci sono in media cinque uscieri per persona per ciascun ingresso di un’amministrazione centrale. Quando però quell’amico ha postato le fotografie, gli è stato chiesto dal sindacato di rimuoverle perché lesive della privacy delle persone e per analogia alle norme perviste dallo statuto dei lavoratori. E, tuttavia, il mio amico ha risposto che non avrebbe eliminato le foto in ossequio ad un altro diritto: quello all’informazione dei cittadini. Anche perché peraltro le foto sono state postate a Bruxelles utilizzando una piattaforma che è americana. Non c’è reato ha sostenuto quell’amico e se ci fosse non sarebbe perseguibile dallo Stato italiano.

L’esempio racconta di un caso anche piccolo dello scontro quotidiano che la rete produce tra diritti (e doveri) contrapposti. Questo scontro è sempre esistito e però con la rete diventa sistematico. Come sbrogliare la matassa e evitare che la rete da strumento di democrazia si trasformi nel suo contrario?  Stefano Rodotà è l’uomo che più di tutti ha messo le istanze degli individui al centro dell’agenda politica e la stesura – voluta dal Presidente della Camera Boldrini – della carta dei diritti fondamentali delle persone come soggetti che consumano e producono contenuti distribuiti da Internet è indubbiamente un tentativo assai innovativo. Perché costituisce la presa d’atto che non basta la carta universale dei diritti umani o la Costituzione di settant’anni fa, a regolare quella che è un’autentica mutazione. Esercizi come quelli proposti da Rodotà e dalla comunità di esperti che ha riunito attorno a questo tentativo, presentano, tuttavia, almeno limiti che sono associati alla loro stessa natura di dichiarazione di principio. Ed essi sono utili proprio se riescono ad incoraggiare un dibattito, incoraggiato dagli stessi promotori, in grado di condizionare l’agenda della politica e del legislatore.

Innanzitutto, le carte dei diritti non si possono neppure porre il problema – delegato concretamente alle leggi – delle sanzioni e, in generale, dell’efficacia di ciò che prevedono. Questo è un limite strutturale e, tuttavia, la consultazione sul bill of rights potrebbe essere l’occasione giusta per mettere in discussione alcuni tabù messi in crisi dalle tecnologie. Rispetto al problema, ad esempio, di proteggere i cittadini dalla possibilità di essere spiati, poteva essere questa la sede per porsi il problema della sufficienza della tradizionale “autorizzazione dell’autorità giudiziaria” per consentire la limitazione di quello che è un diritto fondamentale dell’uomo. Un diritto nuovo ad essere, comunque, informati (anche in presenza dell’iniziativa di un magistrato) dopo un certo numero di anni, del fatto stesso di essere stati controllati, potrebbe essere un antidoto molto più potente alla violazione sistematica che può arrivare anche dallo Stato. In secondo luogo, la carta promossa dal Presidente della Camera è immaginata per essere iniziativa di un parlamento nazionale che tutt’al più auspica o aspetta un’iniziativa europea: è evidente però che Internet, le sue opportunità e i reati che vi sono eventualmente connessi si consumano in luoghi virtuali che attraversano i confini nazionali e che mandano per aria il principio di territorialità, presupposto per qualsiasi azione di prevenzione o repressione.

Google utilizza già ed in maniera sistematica le informazioni personali contenute in poste elettroniche che immaginiamo essere confidenziali, per proporci messaggi commerciali che rispondono a quello che è il nostro profilo. Discutere una qualsiasi regolamentazione che renda gli utilizzatori più consapevoli richiede porsi, subito, il problema di coinvolgere gli interessi dei giganti che ospitano le piattaforme attraverso le quali viene scambiata una quota mai così grande nella storia delle comunicazioni tra individui e organizzazioni. Inoltre, molto utile sarebbe stato rendere esplicito un interesse pubblico all’utilizzazione delle tecnologie come strumento capace di allargare le occasioni di democrazia e, dunque, di crescita: occasione di confronto, ad esempio, per scegliere come comunità – caso per caso – qual è l’equilibrio giusto tra tutela alla riservatezza e esigenza di migliorare qualità ed efficienza di servizi pubblici essenziali (in settori come la sanità, la mobilità, la sicurezza).

Giusto, invece, puntare sull’educazione come antidoto più forte al pericolo che il diluvio di informazioni non si trasformi in maggiore conoscenza. E, tuttavia, il limite più forte della carta dei diritti di Internet è che non è collegata – e non poteva esserlo – in alcun modo con gli investimenti che pure ci saranno nei prossimi anni e della strategia che deve accompagnarli. E questo l’elemento che rischia di farla scorrere come acqua su una situazione che è – per il nostro Paese – di forte divario interno e di ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Accanto alla carta, occorre porsi, dunque, il problema di investimenti infrastrutturali che se non sufficientemente precisi rischiano di non garantire il diritto alla parità di accesso alla rete o, peggio, di produrre regali costosi a imprese che non riescono più a stare sul mercato. E di una strategia indispensabile per trasformare le tecnologie nella leva più potente per produrre crescita e coesione in un Paese che non può più permettersi di sprecare nulla.

Francesco Grillo

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