Sinora il tentativo di riformare la Costituzione si era risolto in una sequela di fallimenti, a cominciare dalla commissione Bozzi istituita nel 1983, per passare a quella del 1992 e infine approdare all’ultimo tracollo, pilotato dall’abile e astuto D’Alema nel ’97. Anche se non proprio dopo «70 anni di attesa», sembra che ormai dopo più di trent’anni di inutili tentativi si sia sulla dirittura d’arrivo, addirittura prevedendo ed imponendo che per il 15 ottobre tutto debba essere compiuto. I tentativi sinora fatti sono forse andati a vuoto per una sorta di inettitudine, di incapacità e debolezza di motivazioni/intenzioni o addirittura per assenza della necessaria tempra fisica e morale della precedente classe politica? Questa impossibilità è stata l’effetto della cattiva volontà, delle segrete ed occulte trame che hanno sempre sotteso le azioni dei nostri leader politici? Non è difficile capire che non si è affatto trattato semplicemente di questo, ma – è banalmente vero – della impossibilità di pervenire ad un testo che fosse comunemente condiviso, senza scontentare nessuno e coinvolgendo quanto più formazioni politiche possibili. E ciò per il semplice fatto che in genere ciascun partito è disposto ad accettare solo quella riforma dalla quale pensa di poter ricavare qualche guadagno di rappresentanza e quindi di potere; o, per lo meno, tale da non rimetterci le penne. Appunto tale condizione è stata sinora difficile da raggiungere, dato che la riforma è stata sempre concepita per semplificare la dialettica politica, per rafforzare l’esecutivo e quindi giocoforza per consolidare i partiti maggiori a discapito dei minori, impedendo quello che si è definito il “ricatto della minoranza”.
In queste condizioni una riforma risulterebbe fattibile solo a condizione di un errore di valutazione da parte di qualche leader, che non si avvede delle conseguenze negative che ne possono derivare o che pensa di essere talmente forte da poterle evitare. Ora il tentativo di Renzi ha pensato bene di poter sciogliere il bandolo della matassa sulla base della forza posseduta in parlamento e dell’accantonamento dell’esigenza dell’“ampio consenso”: per portare in porto l’impresa bastano poche truppe di complemento raccattate in base ad una contrattazione spicciola e a una pratica che una volta veniva definita con l’infamante termine di “trasformismo”. Il calcolo è semplice e al tempo stesso furbo: ottenuto comunque il successo e incassata la riforma, si è ancora in posizioni di forza sufficienti a garantire un futuro parlamento addomesticato con la nuova legge elettorale (nella quale il premier potrà infilare tutti i suoi fedeli, eliminando il fastidio di una sinistra querula, anche se impotente e paurosa) e un Senato di nominati. Allo stato dei fatti, l’unica forza che potrebbe contendere al Pd di Renzi il premio di maggioranza è il M5S che, alla stretta dei fatti, non è facile possa suscitare una fiducia tale da raccogliere il consenso maggioritario, rispetto a un Pd che in caso di ballottaggio riceverebbe il concorso volenteroso di molti elettori di destra. In queste condizioni sarebbe anche ipotizzabile la possibilità di uno scioglimento prematuro del Parlamento che eviti l’effetto di logoramento di un governo che non gode più del consenso iniziale. Ma al di là del suo successo o meno e mettendo da parte l’esigenza prima sempre sbandierata di un consenso ampio e condiviso per le regole comuni a cui tutti devono sottostare, una riforma fatta da un parlamento che ha al tempo stesso il compito legislativo ordinario, è rassicurante?
Un governo soggetto a tutti i condizionamenti possibili e che può servirsi della riforma per scopi impropri, per scambi ed accordi che poco hanno a che fare con la formulazione del testo migliore e più utile per la gran parte degli italiani, è il luogo più idoneo per la genesi di una riforma di tali dimensioni della Costituzione? Appunto qui sta il problema di fondo, e ben lo sapeva Piero Calamandrei quando raccomandava di evitare ogni ingerenza del Governo nella preparazione della Costituzione repubblicana, sino a sostenere che in fase di sua discussione i banchi del governo dovessero rimanere vuoti. La riforma della Costituzione non deve essere compito di un parlamento normale, con compiti legislativi e nel quale opera un governo con notevoli poteri esecutivi; tra l’altro un parlamento come quello attuale, non solo incostituzionale, ma anche eletto in modo maggioritario e quindi non rappresentativo della totalità delle sensibilità politiche e ideali che sono presenti nel complesso della società italiana. Essa è compito di una apposita Assemblea Costituente, che operi indipendentemente e parallelamente al parlamento ordinario, composta da rappresentanti eletti con sistema strettamente proporzionale e, a mio avviso, a condizione che i suoi membri non siano poi candidabili al parlamento che scaturirà dalla riforma, in modo che non si identifichino perinde ac cadaver con i partiti attualmente esistenti.
Tale corpo costituente si sarebbe così potuto sottrarre ai contraccolpi e ai patteggiamenti della normale vita parlamentare e delle forze che la animano e sarebbe stato composto da personalità di alto profilo che, non potendo avere mire di potere (essendo ineleggibili), avrebbero potuto elaborare una Costituzione quanto più condivisa possibile da tutte le sensibilità politiche e ideologiche presenti nel dibattito pubblico. Compito dell’attuale parlamento avrebbe dovuto essere solo quello di predisporre le necessarie modifiche costituzionali per rendere possibile una nuova Assemblea Costituente. Null’altro. Ma appunto l’indipendenza e relativa incontrollabilità di una simile Assemblea l’ha resa sommamente indigesta ai partiti e pertanto irrealizzabile, anche se qualche personalità politica che in passato ha goduto di un certo peso (come l’ex Presidente del Senato Marcello Pera) l’ha indicata come l’unica soluzione per evitare lacerazioni. Ma così non è stato. Dovremo allora accontentarci di una riforma che, cattiva o buona che sia, è sospettata di essere il frutto di tutti i condizionamenti – visibili e invisibili –, di tutti i calcoli di convenienza, di tutte le contrattazioni e compravendite di persone e cose concepibili ed esercitabili da chi detiene il potere esecutivo. Con la conseguenza che in essa si riconosceranno solo una minoranza delle forze politiche, una minoranza di italiani (come già i sondaggi indicano) e che, alla prima occasione favorevole, chi si trova a detenere il potere politico assegnatoli dalla nuova legge elettorale potrà nuovamente mettere mano alla sua modifica, in base alle convenienze del momento. Ci aspetta verosimilmente un periodo di instabilità, di scarso spirito costituzionale, di scarsissima identificazione e accettazione delle regole che reggono il confronto politico. Tutto il contrario di ciò che l’Italia aveva bisogno.
Francesco Coniglione