Film del 2017, arrivato solo di recente nelle nostre sale, La stanza delle meraviglie di Todd Haynes, già regista di Carol, è un’opera sofisticata e intensa, che utilizza sapientemente il montaggio visivo e sonoro, anche osando soluzioni sperimentali, per raccontare, attraverso il parallelismo narrativo di due storie, ambientate in epoche diverse, la ricerca delle proprie origini da parte di due bambini.
Ben è un ragazzino che vive nel Minnesota. Non ha ancora superato la morte della madre, avvenuta in seguito ad un incidente stradale. Malinconico e riflessivo, nonostante la giovane età, rimpiange di non aver mai saputo la verità su chi sia suo padre, un argomento che sua madre ha sempre cercato di evitare. Dopo essere diventato sordo, a causa di un fulmine che lo ha colpito durante un temporale, Ben trova finalmente una traccia del genitore: un messaggio che sembra appartenere a sua padre Daniel, contenuto dentro un libro che parla della Stanza delle Meraviglie, un luogo in cui i collezionisti custodiscono gelosamente i tesori più preziosi. L’indizio spinge il ragazzino a fuggire di casa e a recarsi a New York.
Parallelamente, ben 50 anni prima, Rose, una bambina sorda, scappa dalla famiglia per raggiungere La Grande Mela in cui vive la sua attrice preferita, di cui colleziona gelosamente fotografie e poster.
Durante il film le sensazioni dei due protagonisti si sovrappongono, nonostante la distanza temporale che li separa. E’ così che il loro viaggio e le situazioni che entrambi vanno ad affrontare diventano simili, perché provocano in loro emozioni incredibilmente vicine: dal desiderio di fuggire dalla gabbia in cui si sentono rinchiusi, che li spinge a partire verso New York; alla paura di essere soli in una grande città. Qual è il legame che li unisce? Solo il finale svelerà il collegamento tra le loro storie.
Todd Haynes sfrutta a pieno il materiale narrativo del romanzo illustrato di Brian Selznick da cui è tratto il film (Selznzick è anche sceneggiatore della pellicola); ma se l’opera dello scrittore è diretta principalmente a i ragazzi, la pellicola di Haynes si pone su un piano diverso: adotta infatti un linguaggio cinematografico molto elaborato e sperimentale, che sebbene sia in linea con la storia, risulta inevitabilmente più rivolto agli adulti che non ai ragazzi (al contrario ad esempio di Hugo Cabret di Scorsese, sempre tratto da un romanzo di Selznick, che invece è visibilmente un film per bambini).
Le due storie di La stanza delle meraviglie sono raccontate attraverso due modalità opposte. Se la vicenda di Rose, ambientata nel 1927 è narrata a tutti gli effetti come un film muto in bianco e nero; quella di Ben è affrontata invece con una tecnica visiva e sonora discontinua che cerca di riprodurre la dispersione del ragazzo, alle prese con la sua sordità, sopravvenuta dopo l’incidente. E’ così che con grande padronanza delle tecniche di montaggio il regista passa spesso da una narrazione oggettiva, che riproduce i rumori, le parole e i suoni che circondano Ben, senza tenere conto della sua sordità, ad una narrazione soggettiva, che si mette dal punto di vista del protagonista sordo, e rende la sua “dispersione uditiva” nella caotica città di New York. Una scelta registica innovativa, che porta Todd Haynes ad alternare lo stile del cinema muto a colori, con quello del sonoro a colori per raccontare la storia di Ben; passando invece al bianco e nero muto quando rappresenta la vicenda di Rose.
L’utilizzo delle colonne sonore di Carter Burwell, davvero pregevoli, che sono largamente presenti per tutta la durata del film, permette il raccordo uditivo e visivo tra questi formati tra loro così eterogenei e diversi. Ne esce fuori un film che oltre ad essere davvero bello da vedere, merito dell’ottima fotografia, è anche scorrevole e non fa soffrire il passaggio da uno stile visivo all’altro. Sul finale, in una delle scene più memorabili della pellicola il regista si affida addirittura a dei modellini animati per raccontare la conclusione della sua storia (modellini che tra l’altro erano già annunciati dalle prime scene del film). E’ con questa idea originale che egli rende lo spannung ultimo del film, il quale risponde alla domanda che entrambi i ragazzi si pongono: Chi sono io davvero? Quale è la mia vera origine? Quale è la mia vera casa?
L’aspetto che più soprende del film di Haynes è che nonostante le numerose tecniche impiegate, La stanza delle meraviglie non è affatto un’opera fredda o distaccata, più attenta alla forma che ai contenuti; al contrario ogni scelta registica è connotata e si riferisce alle emozioni dei due protagonisti, anzi, si può dire che sia volta al raccordo tra le emotività collegate dei ragazzi, nonostante essi appartengano a linee temporali diverse. Una fedeltà della regia alla sceneggiatura che oltrepassa il libro stesso, traducendo il tutto in un linguaggio puramente cinematografico in cui il cinema sonoro dialoga con quello muto, recuperando, ai giorni nostri la potenza di quest’ultimo nella sua genuinità, ben incarnata dalla protagonista femminile Millicent Simmons.
Un utilizzo attento e sensibile del cinema muto, quindi, che supera per intensità e creatività le soluzioni adottate da Hazanavicious in The Artist, ultimo film della contemporaneità, prima della Stanza delle Meraviglie, ad essere girato senza suono e in bianco e nero. Per quanto riguarda il messaggio del film, La stanza delle meraviglie del titolo si identifica con il luogo in cui custodiamo i tesori più preziosi. Non si tratta solo di un luogo fisico, ma anche di una dimensione della memoria, che attraversa il tempo e lo spazio, la stessa dimensione che permette ai due protagonisti di connettersi tra loro e infine di comunicare. Al livello metaforico essa è rappresentata nella pellicola dal grande plastico di New York, la vera Wonderstruck (stanza delle meraviglie), che è “vivo” non tanto per gli accurati modellini che lo compongono, quanto invece per il significato che essi custodiscono e possono assumere agli occhi di guarda.
Per Todd Haynes però la stanza delle meraviglie è in qualche modo anche il cinema, uno strumento che può filmare meraviglie nonostante esse siano lontane da noi nel tempo e nello spazio, riuscendo a trasportarle immediatamente, come per magia, in una sala cinematografica, indipendentemente dal fatto che le immagini siano parlate o mute, in bianco e nero o a colori. E’ così che le storie connesse di due adolescenti diventano anche metafora del potere del cinema.