«Lei sogna di ..far tredici? » Ma lo farà sicuro!

Gianni Rodari

FALSE BARUFFE, VERI ACCORDI E BUONA POLITICA

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Tra false baruffe e veri accordi chi ha il potere non ci rinuncia. Si è mai constato storicamente che un ceto privilegiato, una classe sociale, abbia deciso consapevolmente e senza esservi costretto con la forza di tagliare le fonti delle proprie prerogative in nome del “bene comune”?

Al constatare la trasversalità con cui si fanno affari nel contesto della spartizione quasi paritetica del bene pubblico tra i vari partiti – è quanto ci viene rivelato dall’ultimo scandalo della serie, “Mafia Capitale” – viene spontaneo domandarsi se la concorrenzialità tra le diverse formazioni politiche e le baruffe che vengono messe in opera nei talk show non siano in effetti tutta una messinscena ad uso dei “non addetti ai lavori”. E che poi, consegnati i microfoni, svestitisi dei ruoli e deposto il copione da ciascuno recitato, si vada a far bisboccia insieme, spettegolezzando contro questo o quello, per poi infine mettersi d’accordo sul come dare a ciascuno qualcosa (non necessariamente frutto del malaffare) senza farsi troppi danni reciproci. In effetti è del tutto naturale che tra i “politici” si venga col tempo a stabilire una solidarietà di fondo che assume a proprio cardine la salvaguardia del potere di ceto contro le minacce che possono provenire dall’esterno (dalla magistratura, dai movimenti sociali non irreggimentati, da altri partiti che ancora non hanno accettato il “galateo” del dibattito democratico, e così via). Ciò spiega l’impossibilità di una vera riforma della politica che tagli privilegi e prebende, in quanto essa finirebbe per segare il ramo dell’albero sul quale stanno comodamente appollaiati un po’ tutti: politici, amministratori, presidenti di consigli di amministrazione, alti burocrati; insomma, tutti coloro il cui potere o la cui posizione dipende in qualche modo dalla discrezionalità politica.

Mai nella storia un ceto privilegiato ha rifiutato i privilegi in nome del bene pubblicoarresto_di_robespierre

Si è mai constato storicamente che un ceto privilegiato, una classe sociale, un gruppo comunque detentore di potere e privilegi abbia deciso consapevolmente e senza esservi costretto con la forza (comunque intesa) di tagliare le fonti delle proprie prerogative in nome di più alti ideali o del “bene pubblico”? Vi sono numerosi esempi a testimonianza di questa sindrome patologica. Basti pensare al grande nodo del rapporto tra politica e giustizia, dove assistiamo all’interscambio delle parti tra giustizialisti e no, a seconda di chi è momentaneamente sotto il mirino della magistratura, che poi sfocia – quando la minaccia pare ormai coinvolgere pariteticamente tutte le formazioni politiche – in una generale e condivisa richiesta di legislazione che tenda surrettiziamente a “disarmare” la giustizia e ad assicurare l’intoccabilità del privilegio (ovviamente sotto l’etichetta di norme che “combattono la corruzione”). O basti anche riflettere sulla sostanziale irresponsabilità della poli­tica di fronte a malversazioni, a comportamenti politicamente equivoci, a cattive amministrazioni della cosa pubblica: chi pagherà per quanto denunziato dalla Corte dei Conti in merito alla falsificazioni e irregolarità nei bilanci delle Regioni? Eppure questi bilanci portano in calce una firma precisa, sono approvati da una certa maggioranza, sono redatti da un responsabile amministrativo.

Lo scontro per la leadership si configura sempre in base a discrimini che non riguardano i progetti

E tuttavia quanto detto non impedisce che una lotta reale esista davvero, sia all’in­ter­no dei singoli partiti, sia tra partiti diversi. Nel primo caso, venuto a cessare il conflitto per declinare diversamente un progetto di fondo avente carattere complessivo (è la “fine delle ideologie”), la scontro per la leadership si configura in base a discrimini che non hanno nulla a che fare con programmi o progetti. Emerge piuttosto in primo piano la generica contrapposizione tra vecchi e giovani o una semplice invocazione del cambiamento: per realizzare cosa non si sa, per andare verso un dove che non viene indicato; l’importante è cambiare, eliminare il “vecchio” e immettere il nuovo. Nel secondo caso la conquista del consenso nel paese non passa attraverso la gramsciana “egemonia” – cioè la capacità di far diventare universale e condivisa una visione del mondo e della società che, pur scaturendo da interessi particolari, risponda anche all’esigenza di mettersi al servizio dell’interesse generale – ma assume i toni e la strategia di una operazione commerciale, di una scalata borsistica. E il fine di questa operazione di marketing è anch’esso indeterminato, sicché di fatto i contenuti di questo “nuovo” saranno scoperti via via, nella pratica quotidiana del governare, nei decreti leggi approntati e approvati, col ricorso sempre più massiccio al voto di fiducia: «il movimento è tutto, il fine è niente», sosteneva alla fine dell’800 il socialdemocratico Eduard Bernstein, vituperato come traditore dai socialdemocratici “ortodossi” dell’epoca. Eppure costui, nell’affermare ciò, era ben consapevole che il movimento doveva avere un contenuto concreto: la “lotta per i diritti politici dei lavoratori” e la “espropriazione dei capitalisti” come mezzo per realizzare determinati obiettivi e aspirazioni a vantaggio dell’eguaglianza e della solidarietà.

La cultura del nuovo ceto politico non va oltre i 14o caratteri di twitter

Ma ormai lemmi come classe operaia, diritti politici dei lavoratori, o anche sinistra, eguaglianza, solidarietà, sono quasi del tutto estinti nel vocabolario e nell’immaginario dell’attuale politica, sia di sinistra, come di centro e di destra. Resta solo il rinnovamento, il nuovo, il futuro, l’iPhone; e le nuove parole d’ordine sono quelle dettate da finanziari, industriali, tycoon, purché verniciate di nuovismo, riformismo, buonismo, giovanilismo, miti high-tech mal compresi e mal digeriti. Perché ormai la cultura del nuovo ceto politico non è capace di articolare ragionamenti che vadano oltre i 140 caratteri di Twitter e chi azzardi un argomentare più complesso, più problematico, meno semplicistico e semplificatore è irriso, denigrato e infine emarginato dal dibattito, ritenuto un esponente di una cultura vecchia, retorica, un “professorone”, possibilmente di cultura “umanistica” (e quindi inutile).
È questa complessiva trasformazione del modo di concepire la politica e il ruolo del ceto che la rappresenta ad essere all’origine dei fenomeni corruttivi che abbiamo sotto gli occhi. Bisogna allora rassegnarsi a convivere con quanto è in buona sostanza il frutto della tanta celebrata “fine delle ideologie”, oppure è ancora possibile trovare lo spazio per pensare la politica in modo diverso e in cui tornino di nuovo ad avere un posto quelle “ideologie” tanto ingiustamente vituperate, ma che costituivano il carburante indispensabile di una politica non ridotta a mero mestiere ed arrivismo? Solo rispondendo a queste domande è possibile dare soluzione all’odierna crisi della coscienza civile, morale e sociale dell’Italia d’oggi.

Francesco Coniglione

L'Autore

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